L'agenda delle mostre da vedere a giugno 2022 in tutta Italia

2022-05-29 04:12:54 By : Mr. Arther Liu

Arte contemporanea, tra pittura, video, installazioni e linguaggi digitali, ma anche design, fotografia e la nascita di un nuovo museo 'ludico'. 11 appuntamenti da nord a sud, lungo lo Stivale, tra gallerie, musei e location inedite

L'agenda delle mostre di fine maggio 2022 è un invito allettante che copre tutto lo Stivale. Da nord a sud ci sono proposte culturali assolutamente da seguire, magari anche programmando un viaggio, se lontane dalla città o dal nostro abituale circondario. I progetti espositivi di questo mese che fanno capo all'arte contemporanea propongono opere di pittura, video, installazioni, NFT o sperimentano l'ibridazione tra arte e digitale. La ricerca degli artisti, coinvolti nelle esposizioni di questa settimana, affronta tematiche diverse, il passato che lascia i suoi segni sul presente, il confronto con i meccanismi di produzione del desiderio e di costruzione del valore contemporanei. E ancora attraverso il proprio lavoro, l'artista cerca di coinvolgere il visitatore in uno scambio intimo, esplora le complesse tematiche di oggi, tra fenomeni naturali e l'impatto delle nostre scelte, in un viaggio visionario. Oppure, all'interno di un'ex prigione ora spazio espositivo, artisti internazionali si interrogano sulla dimensione storica della reclusione e dell’isolamento e la vocazione moderna di apertura e condivisione. Gli appuntamenti di maggio sono dedicati anche alla fotografia, nel progetto di un grande maestro contemporaneo che con i suoi scatti in bianco nero restituisce l'essenza della sua terra, l'America Latina. Riconosciuta nel mondo dell'arte e della moda, una designer sofisticata e non convenzionale, che ha iniziato la sua carriera negli anni '50, ripropone i suoi pezzi unici o in edizione limitata, oggi oggetto di desiderio, in una mostra che merita una visita. Infine, una proposta speciale: un nuovo museo ludico dedicato all'immaginario del treno, che appartiene a ognuno di noi.

La mostra dedicata a Gabriella Crespi, designer e artista sofisticata e non convenzionale, considerata un'icona nel mondo dell'arte e della moda, è ospitata negli spazi del MAUTO - Museo Nazionale dell’Automobile di Torino. Crespi, del quale quest'anno ricorre il centenario della nascita, ha iniziato la sua carriera negli anni '50 disegnando fino al 1987, sulla base di idee originali e forme articolate proprie del design contemporaneo, oltre duemila oggetti d’arredamento, sintesi di arte e lavorazione artigianale. La celebrità conquistata sulla scena internazionale le deriva dall'essere stata la designer del jet set e dei divi di Hollywood, dall'avere lavorato per le teste coronate europee e l'aristocrazia milanese e romana. Le sue opere, pezzi unici e inimitabili o realizzati in piccole serie ma mai in modo industriale, esposte negli show-room milanesi più prestigiosi e nelle vetrine di Dior, Tiffany e Saks, erano richiestissime come lo sono oggi, oggetti del desiderio dei collezionisti. Dalla prima 'Collezione Small Lune', sculture in acciaio a forma di luna, ai mobili e tavoli metamorfici, dalle sedute alle lampade, dai gioielli fino agli oggetti decorativi naturalistici e astratti, le creazioni di Gabriella Crespi raggiungono quotazioni da capogiro nelle principali case d'asta del mondo. Nel progetto espositivo, al centro della scena si colloca la station wagon Ford che la designer guidava negli anni ’70 e ‘80, piena di progetti, modelli, campioni e prototipi da presentare agli artigiani per la loro realizzazione, un dono dell'archivio Crespi, gestito dalla figlia Elisabetta, che motiva il titolo della mostra. Le opere in mostra inquadrano il lavoro di Gabriella Crespi, grazie anche alla selezione di fotografie che restituisce la storia e il mondo affascinante e radicale e della designer e artista. "Il lusso nel bagagliaio", ideato da Giosuè Boetto Cohen con il supporto di Elisabetta Crespi, prosegue fino al 25 settembre.

La personale di Sylvie Fleury, appena aperta, inaugura il programma di mostre temporanee della Pinacoteca Agnelli, che si inseriscono nelle linee progettuali del 'nuovo corso' dell'istituzione torinese con la direzione artistica di Sarah Cosulich. "Turn Me On,"a cura di Sarah Cosulich e Lucrezia Calabrò Visconti, è stata pensata e progettata appositamente per gli spazi della Pinacoteca in collaborazione con l'artista, in un percorso che indaga i temi rilevanti della ricerca artistica di Fleury attraverso opere preesistenti e nuove commissioni. Dalla fine degli anni Ottanta, la pratica dell'artista include molteplici linguaggi espressivi, dalla scultura alla pittura al neon alla performance, spesso sommati in installazioni ambientali dove opere nuove ed esistenti sono accostate in unico progetto. Pioniera e riferimento importante per le pratiche emergenti, Fleury ha dato vita, negli ultimi trent'anni, a una produzione eclettica che non può essere comunque associata a correnti artistiche o categorie definite. Materiali e linguaggi, quali l’appropriazionismo della Pop Art e l’estetica del Minimalismo, sono esagerati, distorti o travesti dall'artista, che in questo modo muove una critica tagliente del contesto storico e politico in cui tali correnti sono nate. Fleury che si definisce “Femminista punk sotto mentite spoglie”, si relaziona con i meccanismi di produzione del desiderio e di costruzione del valore contemporanei, e di come interagiscono con le politiche di genere, attingendo per il suo vocabolario visivo a oggetti e immaginari provenienti dall’ambito della moda, della fantascienza, delle sottoculture pop, delle corse di Formula 1, della fantascienza e dell’arte contemporanea che utilizza per costruire narrazioni impreviste. Nelle sue immagini seducenti e radicali, la messa in discussione degli stereotipi di genere e la possibilità di trasformarli in arma sono due aspetti coesistenti. Fino al 15 gennaio 2023.

La Wunderkammer della GAM accoglie il progetto espositivo di Flavio Favelli, a cura di Elena Volpato. L'opera unica in mostra è costituita dai 278 fascicoli, 'I maestri del Colore' della Fratelli Fabbri Editore, che uscirono in edicola tra il 1963 e il 1967. Favelli, utilizzando delle cartine dorate dei cioccolatini Ferrero Rocher, ha operato sulle copertine delle monografie, per nascondere i volti dei ritratti, le scene, le porzioni di quadri, affreschi e mosaici che raffigurano la figura umana, dove gli sguardi dipinti sembrano intercettare lo sguardo degli osservatori, riportando le riproduzioni delle grandi opere d’arte a uno stato di impenetrabilità. L'artista lavora sulla “faccenda immensa del passato che non passa, dei ricordi vivi che sono più vivi del presente e lo segnano” a partire appunto dai Maestri del Colore legati alla sua infanzia nella casa di Firenze. Negli anni del boom economico, quei quaderni d'arte rappresentarono una vera e propria rivoluzione nell'ambito editoriale, un fenomeno culturale emblematico del desiderio di cultura di una fascia sociale in crescita. “Grande esempio di cose alte vendute a prezzo basso in posti bassi, in edicola, per essere di tutti, come usava allora, dove le idee volavano alto, con una grafica audace, di un tempo di grande fermento e speranza. Averli nella casa di Firenze faceva il suo effetto”, scrive Favelli nel testo che accompagna l'esposizione. Lo spazio intero della Wunderkammer è abitato dai 278 fascicoli/collage, esposti in tre file, a rendere accessibile l'intero svolgimento della storia dell’arte così come nell'intento enciclopedico dell'opera editoriale. “La novità, la modernità, il nitore della copertina davano una nuova forza una nuova a tutti quei quadri, fino ad allora spenti e solo per storici dell'arte con gli occhiali spessi. E allora in un colpo solo erano tutti insieme Benozzo Gozzoli e Picasso, Cimabue e Morandi, Masaccio e Bacon”. Il fatto, però, che Favelli spezzi le linee del disegno, alteri la bidimensionalità della pittura o la perfezione ideale che emerge da molti quadri, rimanda a un rapporto più contrastato con la storia e il valore del passato ed esprime un’inquietudine estetica tutta contemporanea, per cui ogni Maestro è oggetto di una celebrazione sincera ed insieme finta, come finta è la foglia d’oro, in realtà una carta dei cioccolatini, di Favelli. Fino al 6 novembre.

Un viaggio visionario che si compie tra metafore universali, riti contemporanei, ghiacci e diluvi, foreste ancestrali e rocce oscure. A proporlo è la personale di Stefano Cagol, aperta da oggi nelle sale di Castel Belasi. Nella mostra, a cura di Emanuele Quinz, l'artista trentino, riconosciuto sulla scena internazionale, esplora le complesse tematiche di oggi , tra fenomeni naturali e l'impatto delle nostre scelte, utilizzando vari linguaggi espressivi. La ricerca artistica di Cagol emerge attraverso la selezione di una ventina di opere, video, fotografiche, luminose, sonore e installative, che includono i lavori più recenti fino a quelli realizzati tra metà anni Novanta e inizio anni Duemila, documentando la coerenza e lo spirito anticipatore di questo artista, da sempre impegnato ad approfondire le questioni del nostro abitare il mondo, impiegando un linguaggio evocativo. Tra le opere esposte: 'The Fate of Energy' (2002) che dà il titolo all'esposizione, invita a scoprire i molteplici significati del termine energia, insieme generatrice e distruttrice; il video della performance 'Signal to the Future' che in piena pandemia, nel maggio 2020, rimbalzando da innumerevoli tv di tutto il pianeta, ha raggiunto l'audience di oltre 430 milioni di spettatori; 'The Time of the Flood', una serie di opere video iniziate nel 2019 e per la prima volta presentate in Italia, che considera il diluvio come summa di tutti gli sconvolgimenti; o ancora il lavoro più recente 'Far before and after us', che Cagol ha creato per la 59. Biennale di Venezia, incentrato su un rituale contemporaneo, sospeso tra oscurità e luce, fuoco e ghiaccio, miti del passato, incertezze del presente e sfide legate al futuro, realizzato dall'artista in Val di Tovel, poco lontano da casa. Lavori che “da una parte rivelano un legame profondo con il territorio delle sue origini, e dall’altra esplicitano la funzione di denuncia dell’artista”, spiega il curatore. Fino al 30 ottobre.

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Ha aperto negli spazi di Francesca Minini, la personale di Alice Ronchi, la terza in galleria. Per il titolo della mostra, l'artista si è lasciata ispirare dal brano "Famous Blue Raincoat" di Leonard Cohen, colpita dalle emozioni suscitate nell'ascoltarlo, scegliendone un frammento emblematico. Con 'With a rose in your teeth', “evocando l'immagine di una donna seducente con una rosa tra i denti, Ronchi vuole in realtà sottolineare uno stato di ambiguità, a metà tra vulnerabilità e audacia”, scrive Joel Valabrega nel testo che accompagna la mostra. Il titolo, quindi, fa riferimento al coraggio di una figura femminile che è costretta a superare i propri limiti, spinta dal bisogno di essere accettata. Il progetto espositivo presenta produzioni inedite, che esplorano le tematiche proprie della ricerca artistica di Ronchi, come la ricerca di una giovinezza idealizzata e gioiosa e l’espressione di un timido, ma profondo, desiderio di tenerezza. Aspetti che , pur nascendo da un percorso intimo e personale, riportano a elementi universalmente validi. Tra le opere esposte, 'True Care' è quella cardine, una serie di otto dipinti che raffigurano forme organiche tondeggianti dipinte su sottili fogli trasparenti sovrapposti e racchiusi in una cornice di plexiglass, a comporre una sorta di paesaggio onirico che vuole suscitare tenerezza e leggerezza. L'opera è “una narrazione poetica di qualcosa di astratto in dialogo con una dimensione sfumata che si relaziona con i sogni, con i ricordi, con i sentimenti e con un intimo desiderio di cura”, scrive Valabrega. Non solo, i dipinti sono rivolti verso il visitatore per coinvolgerlo in uno scambio intimo. Ed è proprio questa intimità ritrovata che interessa all'artista, "è ciò che desidero più di tutto, toccare delicatamente lo spettatore, accarezzarlo dolcemente e condividere qualcosa che per me è puro e innocente". I lavori di Ronchi non mirano ad alcuna narrazione o rappresentazione, quanto piuttosto a condurre lo spettatore in un'atmosfera immersiva, leggera e impalpabile. Fino a fine luglio.

Dal 30 maggio, la galleria Monica De Cardenas presenta una collettiva di artisti diversi per visione e provenienza, espressamente eterogenea. L'idea alla base della mostra, infatti, evocata nel titolo tratto da un raccolta di Roland Barthes, rimanda al concetto di frammento, frammentario, mentre il discorso amoroso sotteso, e legante, è quello della gallerista per le opere degli artisti selezionati: Gianni Colombo, Rä di Martino, Chung Eun-Mo, Linda Fregni Nagler, Maria Lai, Claudia Losi, Benjamin Senior, John Stezaker e Federico Tosi. I due artisti italiani storicizzati, Maria Lai e Gianni Colombo (*Milano 1937-1993) rappresentano l’esprit de finesse e l’esprit de geometrie; la pittrice coreana Chung Eun-Mo abbraccia gli ambienti con le forme, i colori modulati e le trasparenze dei suoi dipinti. Claudia Losi presenta le ceramiche della serie 'Gesti Dentro' mentre Federico Tosi le sue sculture in terracotta travolte da un vento distruttivo. Più mite, invece, è il vento che fa volare gli alberi delle immagini oniriche di Rä di Martino, che indaga nella sua ricerca artistica il linguaggio filmico e la relazione tra il cinema, i suoi miti e la memoria collettiva. L’artista inglese John Stezaker utilizza frammenti di fotografie, raccolte negli anni dai mass media, per costruire nuovi mondi; Linda Fregni Nagler con precisione e rigore critico decostruisce l’immagine fotografica per poi ricrearla, facendone magicamente emergere la storia. Benjamin Senior, unico pittore figurativo in mostra, dipinge scene di vita urbana contemporanea con l’antica tecnica della tempera all’uovo, ricorrendo a colori luminosi e trasparenti. Fino al 29 luglio.

Ad Alberto Biasi, tra i fondatori del Gruppo N a Padova, importante rappresentate dell’arte programmata e uno dei più coerenti artisti ottico cinetici europei, è dedicata la mostra monografica allestita negli spazi di Tornabuoni Arte. Esposte ci sono circa 50 opere, tra cui spiccano alcuni lavori che appartengono alla produzione più recente del ciclo 'Torsioni', tra i più iconici della produzione artistica di Biasi, e che, come altre serie, invitano alla partecipazione chi le guarda grazie al dinamismo ottico creato dall'artista. Chi è davanti all'opera è indotto a spostare il proprio punto di vista e l'osservatore nel movimento percepisce immagini che si formano, si deformano, si restringono, si dilatano, mutano di dimensione oppure di colore. Il progetto espositivo è completato da alcune opere storiche degli anni ’60 e ’70, provenienti della collezione privata di Biasi, insieme a oggetti scultorei ottico-cinetici. È ricreata anche la celebre installazione 'Tu sei' del 1973, recentemente esposta a Roma all’Ara Pacis e presentata alla Tornabuoni Arte a Londra nel 2020, che è parte del ciclo degli 'Ambienti'. Biasi aveva creato i prototipi negli anni Sessanta per la mostra 'Arte Programmata' e aveva realizzato le opere in grandi dimensioni intorno agli anni Settanta. 'Tu sei' è un ambiente immersivo, buio, illuminato da fasci di luci colorate, proiettati sulle pareti. Il fenomeno visivo delle ombre generate coinvolge gli spettatori, che le vedono moltiplicarsi secondo i loro movimenti, così da renderli attori e protagonisti dell'opera stessa. Il concetto di arte per Biasi corrisponde a “un’arte visiva che trasmette conoscenza e sapere attraverso gli occhi. Questa e solo questa io definisco Arte, appunto perché trasmette Scienza”. La mostra prende in esame anche i i risultati raggiunti dall’artista nell’analisi delle variazioni percettivo-performative. Fino al 22 luglio.

Nella storia di tutti c'è un treno, il trenino dei giochi d'infanzia o quello che è stato per noi protagonista di un viaggio speciale, comunque capace di aprire alla dimensione magica dei ricordi e delle emozioni. Da oggi, c'è anche un museo del treno. Negli spazi dell’ex cinema Ariston, apre al pubblico, il 29 maggio, HZERO, il nuovo progetto museale dedicato all’immaginario del treno, a partire dall'imponente modello ferroviario realizzato da Giuseppe Paternò Castello di San Giuliano. Il plastico ferroviario, iniziato nel 1972, si amplia nel tempo per opera del suo creatore che lo conduce alla dimensione di opera ludica e architettonica di altissimo livello, combinando artigianalità e tecnologia. Scenari realistici si alternano a quelli di fantasia, mentre si succedono paesaggi che rievocano le montagne delle Dolomiti, architetture d’ispirazione berlinese o panorami marittimi ispirati alle coste dell’Isola d’Elba, in un'opera in divenire nel tempo che oggi è il fulcro di HZERO. Alberto Salvadori, curatore del nuovo museo, ha concepito il progetto come un dispositivo narrativo immersivo capace di avvolgere e interagire con il plastico ferroviario di San Giuliano, che diventa così, non solo visibile, ma anche vivibile. Una sofisticata coreografia poetica di luci, suoni e proiezioni anima lo spazio attorno al modello, realizzando un’ambientazione sensoriale e coinvolgente che combina linguaggi creativi diversi. Questa nuova scenografia multimediale in dialogo con l'anima del museo, il plastico di Giuseppe di San Giuliano, è progettata in collaborazione con lo studio milanese Karmachina e con i musicisti di Tempo Reale. Il nome HZERO rimanda all’espressione usata, nell’ambito del modellismo, per indicare la scala 1/87, unità di misura che definisce la proporzione ottimale per garantire una perfetta visione d’insieme e l’esplorazione dei minimi dettagli.

Linguaggi digitali utilizzati come materia primaria di progetti artistici che esplorano le nuovissime frontiere, rendendo materiale l’immateriale. Matteo Basilé, tra i più riconosciuti innovatori dell’arte contemporanea dalla metà degli anni Novanta e tra i primi in Europa a sperimentare l’ibridazione tra arte e digitale dà vita a nuove visioni nella mostra Hybrida, ospitata fino al 6 settembre negli spazi di Visionarea Art Space, presso l’Auditorium Conciliazione. Nel progetto espositivo, a cura di Gianluca Marziani, che presenta le nuove sperimentazioni ibride di Basilé, definito dal curatore un 'creatore di mondi', sono proposte una selezione di opere realizzate nel 2022 e mai esposte a Roma, oltre a un nuovissimo progetto di opere NFT, prodotte dalla neo nata ARTITUDE.AI. Dall'ibridismo del mondo antico che correlava mondo animale e mondo umano si è passati a quello di oggi "fra uomo, tecnologia e biologia, che si tratti di chip sottopelle o microrganismi biologici come i virus”, chiarisce il curatore. L'esposizione “si articola tra opere fotografiche di vario formato che adattano le loro superfici alle direzioni energetiche del singolo soggetto, al piano d’irradiazione, a una capacità di evocare paesaggi anche quando questi non compaiono. Fondali piatti di matrice fiamminga isolano le figure femminili di quest’antropologia futuribile”. La ricerca artistica di Basilé ha visto protagonisti i generi, le etnie, i luoghi e ha fatto diventare universali le storie di pochi. Attraverso la sua fotografia ha raccontato la stratificazione umana tra bellezza e diversità rendendo i suoi soggetti creature sospese in un tempo indefinito e in una forma fisica ibrida corrispondente oggi al concetto del Metaverso. “I creatori di mondi sono fatti così: danno nuovo spazio e nuovo tempo al proprio sguardo veggente, cucendo le fonti di riferimento con i rimandi a nuove fonti liturgiche. I creatori di mondi immaginano l’uomo nuovo dentro luoghi mineralizzati dal tempo lunghissimo dell’universo”, scrive nel catalogo Marziani. Le opere fotografiche di Basilé, fusione di arte e tecnologia, sono delle vere e proprie ''pitture digitali”, secondo Emmanuele F. M. Emanuele, presidente della Fondazione Terzo Pilastro che sostiene Visionarea Art Space. In esse è riconoscibile il riferimento ai grandi maestri del passato, da Caravaggio all’arte fiamminga fino alle suggestioni del Barocco. Un heritage culturale che Basilé rielabora “fondendo storia classica ed epoca attuale, in una galleria di personaggi che rievocano costantemente qualcosa di noto senza avere tuttavia un’identità definita – 'uno, nessuno e centomila' – e danno vita a un mondo onirico e surreale dove non esistono più riferimenti spazio-temporali. Un’arte fluida e ibrida come l’epoca che viviamo”. Fino al 6 settembre.

Cinque celle di quello che un tempo era il carcere dell'isola trasformati in spazi espositivi. Succede a Procida, dove gli ambienti di Palazzo d'Avalos diventano lo scenario di una mostra d'arte contemporanea che ospita le personali di cinque artisti di rilievo nel panorama nazionale e internazionale. Il luogo simbolo dell'isola, prima edificio signorile e poi Palazzo reale Borbonico e quindi bagno penale fino alla chiusura definitiva del 1988, è stato oggetto di un intervento di rigeneratzione. All'interno del palazzo, 'Sprigionarti', a cura di Agostino Riitano in collaborazione con Vincenzo de Bellis, dà voce alla ricerca artistica di Maria Thereza Alves, Jan Fabre, William Kentridge, Alfredo Pirri, Francesco Arena e Andrea Anastasi, attraverso linguaggi espressivi che includono video, installazioni e videoinstallazioni, nel dialogo intenso tra le loro opere anche site specific e quegli spazi così intrisi delle stratificazioni della storia. Gli artisti sono chiamati a “immaginare una prospettiva relazionale con l’ex colonia penale, un luogo simbolo e testimonianza della storia sociale, politica e urbanistica dell’isola, per indagare nuove risonanze di senso tra la dimensione storica della reclusione e dell’isolamento e la vocazione moderna di apertura e condivisione”, spiega il curatore. La mostra, realizzata con la collaborazione di Studio Trisorio, Galleria Lia Rumma e Alfonso Artiaco, si inserisce nel programma culturale di Procida Capitale Italiana della Cultura 2022. Fino al 31 dicembre.

Nelle sale del Castello Aragonese è protagonista la mostra di Sebastião Salgado, a cura di Lélia Wanick Salgado. 'Altre Americhe', fino a ora inedita in Italia, è il progetto fotografico dedicato al Brasile, terra di origine di Salgado, e all'America Latina. Dopo avere vissuto per anni in Europa, il fotografo ha realizzato gli scatti profondi, in bianco e nero, nel corso di molteplici viaggi tra il 1977 e il 1984, con l'intenzione di tornare a vedere o di conoscere i luoghi del suo continente, per restituirne l'essenza. Le immagini prodotte emanano forza, esprimono il valore di un continente in un racconto che incrocia economia, religiosità e la persistenza delle culture contadine e indiane. Lontano per anni, Salgado aveva bisogno di sentirsi vicino al Brasile e i viaggi avevano lo scopo di potere vivere insieme ai contadini dell’America latina, sulle loro alte terre. “È stato un momento estremamente importante di trasformazione della mia vita, potendo tornare nella mia America latina. E così ho trascorso diversi anni accanto a queste popolazioni, cercando di vivere con loro, cercando di imparare da loro, di conoscere queste regioni che sono tra le più belle del mondo ma abitate da popoli estremamente feriti dalla distruzione della loro cultura indigena dell’America latina da parte della cultura spagnola ", ha dichiarato Salgado. Esposte ci sono 65 opere di tre diversi formati, fotografie che “catturano di volta in volta la luce e l’oscurità del cielo e dell’esistenza, la tenerezza e il sentimento che coesistono con la durezza e la crudeltà”, come ha detto Alan Riding del New York Times. Fino al 2 novembre.